Ricevo un invito per andare a Capri, a un festival letterario. Si tratta di una serie di incontri tra autori anglofoni e italiani; si svolgerà in una piazzetta sul mare, che dà sui faraglioni. Ogni anno il festival è dedicato a un tema su cui gli scrittori si confrontano. Quest’anno sarà «vincitori e vinti». Prima del festival, ai partecipanti viene chiesto di scrivere un pezzo su questo tema, per un catalogo bilingue. Visto che sono una scrittrice anglofona, la supposizione è che io scriverò questo pezzo in inglese, e che poi sarà tradotto in italiano. Ma io, in Italia da quasi un anno, sono ormai talmente presa dalla lingua che cerco di evitare l’inglese il più possibile. Scrivo il pezzo in italiano, per cui serve una traduzione in inglese.
Sarei la traduttrice naturale, ma non ne ho la minima voglia. Non mi interessa, in questo momento, tornare indietro. Anzi, mi fa paura. Quando esprimo la mia riluttanza a mio marito, mi dice: «Ti conviene fare la traduzione da sola. Meglio tu che qualcun altro, altrimenti non sarà sotto il tuo controllo». Seguendo questo consiglio, e avendo il senso del dovere, alla fi ne decido di tradurmi.
Immaginavo che fosse un compito facilissimo. Una discesa anziché una scalata. Invece mi stupisce quanto lo trovi impegnativo. Quando scrivo in italiano, penso in italiano: per tradurre in inglese, devo risvegliare un’altra parte del cervello. La sensazione non mi piace affatto. Provo un senso di estraneità. Come se mi imbattessi in un fidanzato di cui ero stufa, qualcuno che avevo lasciato anni fa. Non mi seduce più.
Da un lato la traduzione non suona. Mi sembra insulsa, scialba, incapace di esprimere i miei nuovi pensieri. Dall’altro sono sopraffatta dalla ricchezza, la forza, la fl essibilità del mio inglese. A un tratto mi vengono in mente migliaia di parole, di sfumature. Una grammatica robusta, nessuna incertezza. Non mi serve alcun dizionario. In inglese non devo inerpicarmi. Mi deprime, questa vecchia conoscenza, questa destrezza. Chi è questa scrittrice, così ben attrezzata? Non la riconosco.
Mi sento infedele. Temo, controvoglia, a malincuore, di aver tradito l’italiano.
Rispetto all’italiano, l’inglese mi sembra prepotente, soggiogante, pieno di sé. Ho l’impressione che, fi nora in cattività, si sia scatenato e che sia furibondo. Probabilmente, sentendosi trascurato da quasi un anno, ce l’ha con me. Le due lingue si affrontano sulla scrivania, ma il vincitore è già più che ovvio. La traduzione sta divorando il testo originale, lo sta smontando. Mi colpisce quanto questa lotta cruenta esemplifi chi il tema del festival, l’argomento stesso del pezzo.
Voglio difendere il mio italiano, che tengo in braccio come un neonato. Voglio coccolarlo. Deve dormire, deve alimentarsi, deve crescere. Rispetto all’italiano, il mio inglese mi sembra un adolescente peloso, puzzolente. Vattene, voglio dirgli. Non molestare il tuo fratellino, sta riposando. Non è una creatura che può correre e può giocare. Non è un ragazzo spensierato, vigoroso, indipendente come te.
Ora mi rendo conto di descrivere il mio rapporto con l’italiano in un altro modo, di aver introdotto una nuova metafora. Finora l’analogia era sempre stata romantica: un colpo di fulmine, un innamoramento. Adesso, mentre traduco me stessa, mi sento la madre di due fi gli. Mi accorgo di aver cambiato il mio atteggiamento nei confronti della lingua, ma forse il cambiamento rifl ette uno sviluppo, un percorso naturale. Un tipo d’amore segue l’altro e da un accoppiamento amorevole idealmente nasce una nuova generazione. Provo una passione ancora più intensa, più pura, più trascendente per i miei fi gli. La maternità è un legame viscerale, un amore incondizionato, una devozione che va oltre l’attrazione e la compatibilità.
Mentre traduco questo breve testo in inglese, mi sento spezzata in due. Non riesco a gestire la tensione, non sono capace di muovermi tra le lingue come un’acrobata. Mi viene in mente la sensazione sgradevole di dover essere due diverse persone allo stesso tempo: una condizione ineluttabile della mia vita. So che Beckett ha tradotto se stesso dal francese all’inglese. Per me non è possibile, perché il mio italiano resta molto più debole. Non sono pari, questi due fratelli, e il mio favorito è il piccolino. Nei confronti dell’italiano non sono neutral.
Quanto alla traduzione in inglese, la ritengo un obbligo, nient’altro. Lo trovo un processo centripeto. Nessun mistero, nessuna scoperta, nessun incontro con qualcosa al di fuori di me.
Devo ammettere, però, che viaggiare tra le due version risulta utile. Alla fi ne, lo sforzo della traduzione rende la versione in italiano più chiara, più articolata. Serve alla scrittura, anche se sconvolge la scrittrice.
Credo che tradurre sia il modo più profondo, più intimo di leggere qualcosa. Una traduzione è un bellissimo incontro dinamico tra due lingue, due testi, due scrittori. Implica uno sdoppiamento, un rinnovamento. Nel passato amavo tradurre dal latino, dal greco antico, dal bengalese. È stato un modo di avvicinarmi alle diverse lingue, di sentirmi legata ad autori lontanissimi da me, nello spazio e nel tempo. Tradurre me stessa, da una lingua in cui sono ancora un’apprendista, non è la stessa cosa. Dopo aver faticato per realizzare il testo in italiano mi sento appena sbarcata, stanca ma entusiasta. Voglio fermarmi, orientarmi. Il rientro, prematuro, mi fa male. Sembra una disfatta, un regresso. Sembra distruttivo anziché creativo, quasi un suicidio.
A Capri, faccio la presentazione in italiano. Leggo ad alta voce il mio pezzo su vincitori e vinti. Vedo il testo inglese in blu sulla sinistra, quello italiano, in nero, sulla destra. L’inglese è muto, abbastanza tranquillo. Stampati, rilegati, i fratelli si tollerano. Sono, almeno per il momento, in tregua.
Dopo la lettura comincia una conversazione tra me e due scrittori italiani. C’è anche un’interprete seduta accanto a noi per tradurre in inglese ciò che stiamo dicendo. Dopo qualche frase mi fermo, poi parla lei. Quest’eco in inglese è una cosa incredibile, fantastica: è sia un circolo compiuto sia un rovesciamento totale. Ne sono stupefatta, commossa. Penso a Mantova tredici anni fa e all’interprete senza il quale non potevo esprimermi in italiano davanti al pubblico. Non pensavo che avrei mai raggiunto questo traguardo.
Ascoltando la mia interprete, mi fi do per la prima volta del mio italiano. Sebbene rimanga per sempre il fratello minore, il mingherlino se la cava. Grazie al primogenito riesco a vedere il secondo, ad ascoltarlo, perfi no ad ammirarlo un po’.
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Ann Goldstein is visiting the UK in October for a series of events discussing her translation of Elena Ferrante. Ann will appear in Dublin on 11 October, in Leeds on 13 October, in London on 14 October and in Cheltenham on 15 October.